Intervista al filosofo Umberto Curi

Il fiorire di numerose associazioni che si richiamano al civismo, anche con esiti elettorali di rilievo, come nel caso di Coalizione civica per Padova, pone alla nostra attenzione questioni fondamentali quali il rapporto tra la politica e i cittadini, tra i partiti e gli elettori e in definitiva la definizione stessa di “democrazia”. Ne parliamo con il filosofo Umberto Curi che è stato il primo a segnalare l’importanza e i limiti delle esperienze civiche nel nostro paese. Quindi, professore, dobbiamo iniziare il nostro ragionamento dal concetto di democrazia?

Alla radice della nozione stessa di democrazia sussiste una contraddizione, in larga misura insanabile. Da un lato, infatti, già dal punto di vista etimologico, democrazia vuol dire “governo del popolo” ovvero coincidenza fra governanti e governati. Dall’altro lato, sia sotto il profilo storico che dal punto di vista concettuale, intesa come si è detto, la democrazia semplicemente non è possibile. A parte la pessima reputazione della quale ha sempre goduto preso grandi pensatori del passato (Da Platone a Hobbes e Schmitt), per i quali essa è la forma peggiore di governo, lo stesso Jean Jacques Rousseau, paladino del concetto moderno di democrazia, doveva riconoscere che in senso proprio essa non è possibile o almeno non lo è in senso tecnico specifico e cioè come autogoverno del popolo. Se ci si pensa, infatti, le uniche forme storiche di democrazia effettivamente realizzate sono altrettanti esempi nei quali il popolo non governa direttamente, ma solo attraverso meccanismi indiretti di delega e rappresentanza.

E la democrazia diretta di cui tanto si parla?

La democrazia diretta resta un concetto limite, a cui non corrisponde alcuna esperienza storica, si tratta di capire fino a che punto si possa ancora parlare di democrazia quando essa assuma l’unica forma possibile, quella della democrazia rappresentativa. Mi limiterò ad un solo punto, di per sé decisivo. Da un lato, per poter parlare di una democrazia realmente rappresentativa sarebbe necessario che la rappresentanza fosse sempre più estesa e capillare. Ma dall’altro, il processo decisionale, in società complesse e articolate, richiede tempestività e dunque tende inevitabilmente alla riduzione e alla semplificazione. Insomma, per dirla rozzamente: se da un lato allargo la platea dei soggetti ai quali riconosco il diritto di far sentire la loro voce, dall’altro lato rendo più lento, intempestivo e quindi inefficace il processo delle decisioni. Correlativamente, se assecondo l’esigenza di una decisione rapida e incisiva, devo necessariamente operare una riduzione della complessità, e dunque un restringimento, anziché una dilatazione, del tessuto della partecipazione. La contraddizione fra queste due tendenze opposte, sempre più evidente nel funzionamento concreto delle democrazie occidentali, ha raggiunto un punto critico, ponendo in questione la possibilità stessa di sopravvivenza della forma democratica di governo. Insomma: la crisi della democrazia, di cui spesso si parla corrisponde ad una realtà di fatto che accomuna il nostro ad altri paesi dell’Occidente.

Il collasso dei sistemi politici del cosiddetto socialismo reale ha dato ulteriore incentivo a questa crisi. Solo per leggerezza si è creduto che l’eclisse del totalitarismo dell’Europa orientale potesse liberare le energie positive dei sistemi democratici occidentali. Mentre è accaduto esattamente il contrario: caduta la prospettiva di una possibile alternativa di sistema, le democrazie occidentali sono state investite di una molteplicità di attese, esigenze, aspettative, che sono servite a far emergere ancor più drammaticamente le contraddizioni latenti nelle democrazie rappresentative. Sarebbe stato necessario accompagnare il crollo del muro di Berlino non con le orge di retorica a cui abbiamo assistito, ma con la consapevolezza di uno scenario nel quale, senza più alibi o giustificazioni, le democrazie sarebbero state chiamate a rispondere a esigenze sempre più impegnative.

Quindi il crollo del muro di Berlino aveva aperto prospettive che non sono state colte, le democrazie occidentali non sono state all’altezza della domanda sociale?

Per dirla in grande sintesi, quel crollo esigeva che si ponesse mano a riforme complessive, tali da mettere in condizione di accogliere e soddisfare domande sociali sempre più esigenti. Sarebbe stata necessaria – nel nostro paese, e più in generale nell’intera Europa –l’apertura di una stagione di grandi riforme, capaci soprattutto di incidere sui meccanismi stessi dell’assetto democratico-rappresentativo. Per responsabilità di tutte le forze politiche non si è fatto nulla che procedesse nella direzione indicata. Con un duplice ordine di conseguenze: da un lato, si è aggravata la crisi di tutti i principali istituti della democrazia rappresentativa, dall’altro si sono moltiplicati fenomeni di intreccio fra politica e affari, raggiungendo vertici da primato europeo. Anziché comprendere che ciò che viene superficialmente definito in termini di “corruzione”, altro non è che uno degli effetti della più generale crisi di sistema, si è preferito valorizzare denunce di stampo moralistico, spostando l’attenzione dal livello strutturale del funzionamento del sistema al piano individuale della moralità dei singoli.

Come questo ragionamento alto interviene nel dibattito sulle coalizioni civiche?

La mia convinzione è che esperienze come quella di Coalizione civica per Padova possano essere comprese e valutate adeguatamente solo se ricondotte ad una quadro generale di sistema, e più in particolare solo in relazione ad un’analisi dello stato di salute delle forme, dei meccanismi e dei soggetti della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Si tratta di affrontare temi abitualmente del tutto trascurati, e che invece vanno esaminati in maniera dettagliata.

Il principio ispiratore della nostra Costituzione è la tripartizione e la reciproca indipendenza dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario). Ebbene, da molti anni l’attività legislativa è per circa l’80% svolta dall’esecutivo mediante la decretazione d’urgenza (che dovrebbe essere usata solo in casi di “comprovata urgenza e necessità”). In secondo luogo, la magistratura, anche attraverso il suo organo di autogoverno, è presente sulla scena politica con un ruolo che va ben al di là del controllo di legalità ad essa attribuito dalla Costituzione. Ancora: il Presidente della Repubblica agisce come soggetto politico, e non si limita affatto ad incombenze meramente notarili. La Corte di Cassazione, che dovrebbe svolgere il ruolo esclusivo di controllo di legalità di ultima istanza, interviene in maniera decisiva nel determinare alcune scelte strategiche di politica economica, come è accaduto di recente con la questione delle pensioni. I sindacati non si limitano alla tutela degli interessi dei loro associati, ma intervengono per condizionare le decisioni dell’esecutivo anche su materie non strettamente attinenti alla condizione dei lavoratori. I partiti, mentre da un lato non assolvono al ruolo, previsto dalla Costituzione, di associazione private votate alla selezione del ceto politico, dall’altro lato svolgono abusivamente ruoli istituzionali, occupando posizioni di potere in una pluralità di settori diversi, dalle banche agli enti pubblici, fino alla stessa Rai. Il potere burocratico-amministrativo, soprattutto attraverso il ruolo dei Ministeri, esercita un’influenza politica sempre molto importante, e talora determinante, sebbene nessuna prerogativa specifica (e dunque anche nessuna responsabilità) sia ad esso formalmente attribuita. Insomma, tutti i principali istituti della democrazia rappresentativa descritta dalla Costituzione del ‘48 di fatto o non funzionano o esorbitano dai loro compiti. Di qui, appunto, una logica conseguenza, sulla quale occorrerebbe riflettere: la Costituzione “attualmente vigente” non coincide affatto col testo della Carta approvata dai padri costituenti. In vigore è piuttosto un insieme di prassi, consolidatesi nel tempo fino a essere diventate inderogabili, che proprio nulla hanno a che vedere con il testo scritto della Costituzione italiana. Ne consegue una verità scomoda, quanto necessaria: la vittoria del composito fronte del “no” in occasione del referendum del 4 dicembre non ha affatto salvaguardato l’intangibilità di quella che è stata considerata la migliore costituzione del mondo. Nei fatti, è servita piuttosto a consolidare ulteriormente la costituzione materiale in vigore, attribuendo altresì ad essa, attraverso il suffragio elettorale, una legittimità di cui finora è stata carente.

Il discostamento della Costituzione materiale dalla Costituzione formale del 1948 attiene alla volontà politica o ad una necessità dovuta all’impossibilità di funzionamento della macchina statale, ormai obsoleta?

Nei cinque anni trascorsi, il ricorso “straordinario” alla decretazione d’urgenza è stato utilizzato per ben 95 volte. Non meno abnorme l’affidamento al voto di fiducia come procedura di approvazione di una provvedimento legislativo. Il primato spetta a Gentiloni (media di 2,48 voti di fiducia al mese, per un totale di 107 lungo l’arco dell’intera legislatura). Altrettanto intenso il varo di decreti legislativi, mediante i quali il governo trasforma in articolato di legge le linee generali di leggi delega approvate dalle Camere.

In grande sintesi: quasi tre quarti della produzione legislativa dell’intero quinquennio è frutto dell’iniziativa dell’esecutivo e non del Parlamento, il quale ha svolto un ruolo puramente sussidiario e marginale mentre le questioni di fondo sono il risultato dell’iniziativa del governo. Sul piano dei fatti concreti, quindi, il principio della tripartizione e dell’autonomia dei poteri, è completamente saltato: il Parlamento è quasi completamente svuotato di poteri in favore di un allargamento sempre più rilevante delle competenze del governo. Il tutto senza riforme che modifichino con procedure trasparenti il ruolo e le funzioni dei principali attori istituzionali. Per quanto scomodo possa essere doverlo riconoscere, si deve ammettere che la Carta del ‘48 sopravvive ormai solo come documento storico, e non come descrizione effettiva della morfologia dei poteri e delle loro relazioni.

Vale a dire che la macchina istituzionale nel suo insieme funziona ormai mediante il rovesciamento del rapporto fra norma e ed eccezione. La “morale” di questa vicenda dovrebbe essere lampante. Per volontà di tutti e di nessuno in particolare, ormai da tempo la costituzione materiale si è discostata dalla Costituzione formale con una divaricazione insanabile. Di qui l’alternativa: o si lascia la situazione quale è, di fatto legittimando un regime di deroghe e abusi del tutto extra legem, oppure si pone mano a riforme istituzionali che interiorizzino alcuni dati diventati inoppugnabili, e ridisegnino la seconda parte della Costituzione in maniera tale da ricondurre sotto il controllo della legge i processi materiali in atto nel sistema istituzionale del paese.

Mi sembra a questo punto fondamentale un suo giudizio sul referendum costituzionale non tanto nel merito del quesito perché hai già risposto sopra, quanto sul piano politico.

Il referendum del 4 dicembre, in qualunque modo si voglia valutarlo, ha obbiettivamente segnato la fine di una fase storico-politica ben definita. La fase nella quale si sono confrontate due ipotesi teorico-politiche concorrenti, anche in forme aspramente polemiche, ma in realtà accomunate da un medesimo progetto – quello di reagire alla crisi della democrazia rappresentativa e di tutti i suoi principali istituti, dal Parlamento alla magistratura, dalla Presidenza della Repubblica al ruolo dei cosiddetti corpi intermedi, e in particolare dei partiti. Il PD renziano e il M5 stelle hanno tentato di rispondere ad una vera e propria crisi di sistema (tanto più pericolosa, perché non percepita o se vista, colpevolmente ignorata) seguendo strade opposte. Renzi puntando su riforme capaci di rilegittimare le sedi e i soggetti del sistema politico-istituzionale, conferendo ad essi efficienza e tempestività di azione. Grillo cercando di spingere fino al limite la crisi, nella prospettiva – confusa ma non utopistica – del collasso definitivo del sistema. Col 4 dicembre, entrambi i progetti sono falliti: il primo, travolto dalla marea dei no; il secondo perché inchiodato dalla contraddizione di un movimento che si batte leoninamente per difendere una Costituzione, che in realtà cerca quotidianamente di svuotare, nella prospettiva dell’instaurazione di una non ben definita democrazia diretta.

La scelta di votare no al referendum del 4 dicembre era probabilmente inevitabile, visti i limiti tecnici dei provvedimenti in esame e l’arroganza con la quale si è sfidata l’opinione democratica del paese. Ma sarebbe un vero suicidio politico ritenere che possa bastare opporsi ad una riforma tecnicamente sgangherata, senza cogliere la persistenza e la drammaticità delle questioni che – sia pure in maniera distorta – ne erano alla base. Insomma, lo si sarà già capito. Per quanto possano sembrare piani e livelli diversi ed eterogenei, sono convinto che la maturazione e il consolidamento di esperienze come quella di Coalizione civica per Padova passino attraverso una complessiva analisi di sistema, dei suoi fattori di crisi e delle opportunità che pure tale crisi può dischiudere specificamente per realtà come quella padovana.

Alla luce di queste considerazioni, ritiene che si possa giungere ad una definizione coerente di “Soggetto politico civico” e quali ritiene siano gli elementi costitutivi?

Considerando la frequenza con cui l’etichetta civica è stata strumentalmente utilizzata per coprire iniziative di puro e semplice trasformismo, o per tentare di mascherare la vera identità politica dei soggetti che ne sono promotori, può rivelarsi utile cercare di chiarire che cosa si debba intendere per “civico”. Molti pensatori concordano, pur in modi diversi, di definire la società civile come quel livello di organizzazione sociale dei bisogni e degli interessi che precede il livello dello Stato e delle istituzioni. La società civile come “grado” che dalla “immediatezza naturale” dell’aggregazione familiare conduce alla “consapevolezza” dello Stato.

La società civile non è un luogo di neutralizzazione dei conflitti, non è uno spazio “pacifico”, privo di contraddizioni, non identifica affatto un livello in cui non si debbano operare delle scelte. In altre parole, essa non coincide con la negazione della politica come confronto e scontro fra posizioni contrastanti, ma all’opposto riconduce la conflittualità alle sue basi originarie, di carattere economico e sociale. Non può quindi accadere che l’essere civici conduca ad una specie di agnosticismo che esoneri dal prendere una posizione in merito alle principali questioni al centro del conflitto politico. Civico non è l’opposto di politico ma è diverso rispetto a quella formalizzazione della politica che è data dallo Stato e dalle sue istituzioni, ivi compresi i partiti politici. Rispetto ai temi che le amministrazioni comunali devono affrontare – dall’emigrazione alla sicurezza, dal degrado delle periferie ai servizi sociali, dal trasporto pubblico all’utilizzo del suolo – una lista potrà dirsi autenticamente civica non proclamando la propria “neutralità” o mancanza di “colore” politico, ma esattamente al contrario dichiarando esplicitamente e analiticamente le proprie opzioni, e su esse chiedendo il consenso dell’elettorato. Ove ciò non accada, dovrebbe risultare palese l’inganno: le sedicenti liste civiche altro non sono che l’ennesimo ingannevole travestimento di una politica tradizionale ormai giunta al capolinea.

Delineato un quadro di riferimento generale, veniamo agli effetti locali di tali premesse. Si è osservato dopo lo straordinario successo elettorale delle liste che hanno supportato le candidature civiche-politiche, e in primo luogo quella di Arturo Lorenzoni, alle elezioni comunali del marzo 2017, un calo di partecipazione dei cittadini alle attività di Coalizione civica per Padova. Quali, a suo giudizio, le cause di questa crisi nel rapporto con i cittadini?

Il problema vero non consiste nell’inevitabile affievolirsi della spinta espansiva dei primi mesi di vita di CC, quanto piuttosto nella difficoltà di riformulare la propria ragion d’essere e le modalità della propria iniziativa dopo la vittoria elettorale. È l’insidia insita nel passaggio dalla critica alla costruzione, nell’ardua assunzione di responsabilità di governo che rimanga fedele alle enunciazioni e al programma. Ci si può, per ora, limitare a riconoscere che, a parte alcune sbavature e qualche errore, la squadra al lavoro a Palazzo Moroni non ha finora demeritato, soprattutto sul piano dell’impegno profuso dai singoli. Tuttavia una parte della cittadinanza attendeva dalla nuova giunta un segnale forte di discontinuità rispetto al passato. Segnale che non è giunto chiaro o forse non è stato comunicato nel modo corretto. Quindi poco compreso. Ma vi è un altro ordine di considerazioni, relativo al rapporto fra movimenti di ispirazione civica e governo di una comunità: le modalità di esercizio dell’amministrazione richiede tempi che risultano spesso incompatibili con la logica di funzionamento di soggetti informali quali sono gli attivisti dei movimenti civici. Di qui l’aprirsi di una sfasatura che è destinata ad ampliarsi, e che potrebbe condurre ad una frattura difficile da rimediare. Emerge qui un tema che è stato accantonato nel dibattito politico recente, vale a dire l’urgenza e la centralità di por mano a radicali riforme che coinvolgano l’assetto istituzionale del nostro paese, non solo in sede centrale (Parlamento, ministeri, governo, ecc.), ma anche a livello periferico. Le amministrazioni locali, infatti, funzionano a regime (o, meglio, dis-funzionano) attraverso una esasperata riduzione di complessità, e soprattutto mediante il sistematico tagliafuori di ogni possibile rapporto con le domande e le esigenze della società civile. Così come è ora strutturata, già nel suo “linguaggio”, l’amministrazione di un comune esclude di principio ogni apertura che consenta un fisiologico interscambio fra decisioni e partecipazione, fra governo e società. Perdurando lo scenario ora abbozzato, il deperimento del fenomeno del civismo, inchiodato all’irrilevanza, è irrevocabilmente segnato. Per dirla in grande sintesi: la “macchina” amministrativa non è in grado di recepire una radicale innovazione politico-culturale connessa col civismo, perché è costruita in modo da presupporre l’assetto istituzionale e burocratico-amministrativo fondato sui partiti tradizionalmente intesi.